Sui manuali di alpinismo si raccomanda di programmare con attenzione l’escursione, tenendo conto delle distanze, di portare provviste sufficienti, ecc.
Bene, sui passi di Robert Redford, che in “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” acquistava il necessario per andare a vivere sugli altipiani e gli abitanti del villaggio lo guardavano stupiti, consci dei pericoli e del clima che avrebbe trovato lassù; anch’io acquistai il necessario ad Orgosolo, per attraversare in due giorni il Supramonte e allo stesso modo mi guardarono gli abitanti di Orgosolo, mentre mi accingevo alla traversata.
E a ragione mi guardavano straniti: il Supramonte è sicuramente la zona più selvaggia d’Italia. Un tamburo di roccia a 900 metri sul livello del mare, del diametro di circa 30 Km, sul quale non esiste praticamente alcuna traccia di attività umana, non esistono sentieri, né bivacchi, né acqua che finisce rapidamente nel calcare fessurato, peraltro pericoloso perché si può cadere nelle fenditure.
E’ un’immensa boscaglia interrotta da doline gigantesche, da precipizi che a ovest incombono su Orgosolo, a nord su Oliena e a est su Dorgali, da pianori sassosi e, soprattutto, dal Gorropu, l’impressionante canyon che taglia in due l’altopiano.
Sulle Alpi è tutto facile: sentieri vistosi, segnali, cartelli, mappe, segnavia, rifugi …
In Supramonte, una volta che hai capito che non c’è nulla di tutto questo, è già tardi: il “sentiero” che tu segui, è in realtà una traccia casualmente senza vegetazione fra valli pietrose e boscose e ti porta dove vuole lui.
Ma tu non vuoi crederci.
Lo segui, finché sei costretto ad abbandonarlo e a passare ad un’altra traccia.
Poi (questo, almeno, prima del GPS. Sempre che il GPS sul Supramonte funzioni) cominci a girare in tondo.
Solo dopo molte ore riesci a prendere le misure e, più o meno, a procedere.
Detto questo, ecco il resto del racconto.
Eccitato, più che intimorito dalle perplessità che gli Orgosolesi avevano sollevato, mi incamminai la mattina dell’11 agosto del 1993 sulla mulattiera che aggira la spettacolare parete sud del monte Corrasi e immette nel cuore del Supramonte.
Avevo iniziato a camminare due giorni prima da Fonni, il paese più alto della Sardegna, ai piedi del Gennargentu, e seguivo la linea immaginaria che avevo idealmente tracciato sulle cartine: dal Gennargentu a Cala di Luna, attraversando la Sardegna centro-orientale (e nello specifico il Supramonte) da ovest a est, partendo dalla sua montagna più alta: cinque giorni in tutto.
La mulattiera, superato il passo sotto il monte Corrasi, spariva nella vegetazione, e io potevo a quel punto tornare indietro, oppure estrarre cartine militari, bussola e altimetro, e proseguire.
Proseguii, e in pochissimo tempo mi trovai avvolto nella solitudine assoluta, rotta solo dal frinire dei grilli e dallo scalpitìo dei cinghiali, sfuggenti davanti a me, che li sorprendevo stupiti nel loro torpore estivo.
Avevo costeggiato l’orlo del “Su Suercone” (foto in basso), una dolina immensa, che mi ricordò quella nella quale è celato Tiscali, l’ormai celebre villaggio nuragico, situato pochi chilometri più a nord, che avevo “scoperto” piuttosto avventurosamente con Paola e alcuni suoi amici due anni prima, ed ero entrato nel Donanigoro, lo sterminato pianoro regno dei mufloni, stupiti anch’essi della presenza umana e lesti a fuggire il mio obiettivo.
La somiglianza di questo pianoro stepposo e i branchi di mufloni che vi pascolavano, con i pianori dei parchi africani e i loro branchi di antilopi, a cui siamo ormai avvezzi dalla visione di decine di documentari, era impressionante.
Preso da un’energia e da una felicità incontenibili per questo spettacolo, mi apprestai a salire sul monte Oddeu, che sovrasta il Donanigoro e che precipita verso la valle del Flumineddu e la celebre strada Orientale sarda.
Questa salita non era prevista, ma il panorama che le curve di livello della cartina promettevano doveva essere grandioso.
E dalla cima, che raggiunsi al tramonto, vidi a 800 metri a picco sotto di me la verdeggiante vallata del Flumineddu, appena uscito dalla gigantesca frattura del Gorropu e, aldilà della strada Orientale Sarda, altre montagne, quelle della Codula di Luna.
Poi, alla mia destra, mi apparve il Gorropu, e venni preso da sgomento: avevo sentito parlare della magnificenza di questo canyon, ma la vista della fenditura che spaccava l’altopiano, con il fiume sul fondo, cinquecento metri più in basso, era impressionante.
Al calar della notte mi stesi con il sacco a pelo sul materassino.
Per la prima volta ero completamente solo, a numerosi km in linea d’aria e ad almeno una decina di ore di cammino dal più vicino essere umano.
In base al programma dovevo essere molto più vicino al rifugio Genna Silana, tappa di questa parte del trekking.
Ma la salita al M. Oddeu mi aveva fatto perdere molto tempo e, soprattutto, mi aveva fatto bere molto, troppo.
Era fra l’altro cessato il maestrale che aveva soffiato fino a qualche ora prima, e sul quale contavo per non soffrire troppo il caldo.
Mi svegliai al sorgere del sole con una sete terribile e mi rimisi in cammino, riscendendo dal monte Oddeu.
La giornata era caldissima e dopo poche ore ero entrato nella disperazione completa: avevo terminato l’acqua.
Le strapiombanti pareti del Gorropu, che costeggiavo alla mia sinistra, non mi meravigliavano più, ma mi angosciavano, e mi impedivano di raggiungere in tempi ragionevoli il rifugio Genna Silana, situato dall’altra parte del canyon.
Avevo commesso un altro errore: in fase di studio delle cartine avevo calcolato di scendere sul fondo del canyon e di risalire il versante opposto, sfruttando tracce di sentiero indicate sulle cartine, senza ipotizzare itinerari alternativi.
Il fatto è che mi era impossibile, con quel caldo e senz’acqua, fare un simile dislivello.
La soluzione era quella di aggirare il canyon dove questo aveva origine, ma era una via molto più lunga.
Per fare questo dovevo verificare la cartina ogni poche ventine di metri e, facendo azimuth, tracciare una serie di linee rette, tese, appunto, a evitare sia la discesa nel Gorropu alla mia sinistra, che i folti tratti di macchia alla mia destra.
Questo procedere a zig zag, passando per i punti identificati sulla cartina, mi evitava quindi i tratti di boscaglia e non mi teneva troppo vicino al pericoloso orlo del precipizio.
Andando per linee rette, ero però costretto a salire e scendere rupi, a sfrondare rovi e arbusti.
Il sudore colava, le fauci erano secche, sanguinavo a causa delle spine, alle quali non badavo più e un groppo mi serrava la gola per il timore di non uscire vivo da quella situazione.
Erano circa le due del pomeriggio, quando mi ritrovai ai piedi di una scarpata rocciosa alta un’ottantina di metri.
Dalla carta potei individuare un sentiero (il primo segnato sulla carta da quando ero partito) sul pianoro sovrastante, che portava verso Urzulei e quindi verso il rifugio.
Ma non avevo più forze per arrampicarmi fin lassù.
La mancanza d’acqua stava danneggiando le funzioni metaboliche:
Il corpo non sintetizzava più zuccheri e le ossa quasi scricchiolavano.
Mi accasciai e desiderai rimanere lì e dormire.
Poi mi ripresi dall’intontimento e mi accinsi alla ripida salita, in piena crisi di nervi.
E’ proprio vero che il corpo umano in condizioni estreme tira fuori risorse inaspettate.
Riuscii a giungere sul pianoro e ivi trovai il sentiero segnato sulla cartina, diventato nel tempo una carrareccia.
Trovai anche, in modo fortunoso, di che dissetarmi e in serata giunsi al Genna Silana, abbracciando Fabio, Tullio e Stefano, gli amici che mi aspettavano per continuare il trekking verso oriente, verso il mare, lungo la Codula di Luna, il favoloso, infinitamente lungo, canyon che termina al cospetto della ormai celebre Cala di Luna, dove ci attendevano altri amici.
Questo, dopo aver disatteso praticamente tutte le norme per effettuare in “sicurezza” un trekking in solitaria e in un ambiente estremo quale è il Supramonte.
Foto di copertina: il Flumineddu esce dal gigantesco canyon del Gorropu che taglia il Supramonte. In primo piano, sulla destra, il pendìo che porta alla vetta del Monte Oddeu.
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[…] del 1993 attraversai in solitaria il Supramonte da Oliena e Genna Silana, ovvero l’altopiano più selvaggio d’Italia (e forse d’Europa), senza sentieri, e […]