
So. L’ho già scritto.
Ma ogni volta mi sorprendo nel trovare, a poca distanza da Roma (e ‘stavolta i chilometri dal GRA sono solamente quattro), paesaggi che sembrano immutati da secoli.
E ancor più mi sorprende una vegetazione più rigogliosa appena fuori città, rispetto a luoghi da essa più distanti (fatto dovuto, immagino, alla maggior quantità di terreni privati, e inutilizzati, presenti intorno alla capitale).

E sempre mi sorprende, infine, il periodico desiderio di frequentare questi ambienti, di comunicare direttamente con il passato e di vivere l’avventura.
In realtà, per trovare l’avventura, frequento anche la montagna.
In montagna ho scoperto, e stressato, i miei limiti, ho imparato a reagire in modo veloce a condizioni di pericolo, a spingere anche in situazioni di fatica estrema per raggiungere la vetta, e imparato a ritirarmi velocemente sotto i fulmini, ascoltando l’istinto.
Abbandonando talvolta l’escursione se non mi sentivo pronto, anche se le condizioni climatiche e della neve erano buone.
Per questo, e altro, la montagna è parte della mia vita.
Non vi ho d’altro canto trovato la dimensione “ulissiaca”, visto che non è possibile scoprire alcunché sulle montagne nostrane, se non altro perché è necessario studiare l’itinerario prima dell’escursione.
Sarebbe possibile entrare nella dimensione avventurosa in quelle extraeuropee (ma, ahimé, non le ho mai frequentate).

Quindi l’avventura, in montagna, è soprattutto nella mia testa.
Dove, invece, scoprii la vera avventura? Ma vicino casa, esplorandone i dintorni.
Scrisse M. Proust: “L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi”.
E J. Muir scrisse “in ogni passeggiata nella natura l’uomo riceve molto di più di ciò che cerca”.
Ebbene, proprio vicino casa cominciai a vedere con nuovi occhi i paesaggi che pensavo di conoscere, e a ricevere molto più di quanto cercassi.
Imparai a utilizzare la testa, non per muovermi in condizioni estreme, ma per individuare siti di cui non avevo descrizioni di sorta e della cui esistenza non ero talvolta neanche sicuro, riacquisendo riflessi di una memoria antica.

La curiosità aumentò e all’esplorazione puramente naturalistica si aggiunse quella storica, con interrogativi spesso di non facile soluzione sulla natura dei luoghi che andavo scoprendo.
Mi bastava andare vicino casa e individuare una parete forata, per immaginare che qualcuno ivi dormì o vi depose i suoi viveri e mi bastava toccare le pietre lavorate dai popoli del passato, per sentire ancora il rumore di chi quella pietra la scolpì e percepire l’intervento umano.
E, oggi, mi trovo più vicino casa che mai. E il luogo che stiamo per vedere è il sito più vicino a Roma dove ho avvertito l’avventura, il senso della storia, l’immutabilità dei secoli.
Invero l’immutabilità è solo apparente, dal momento che anche qui, come dappertutto intorno alla capitale, i boschi e le folte macchie che vediamo oggi, sono stati per lunghissimi periodi distese di pascoli e campi coltivati e la legna è stata massicciamente utilizzata per ardere e costruire.

Dopo questa lunga premessa passiamo alla cronaca di questa escursione nel terzo municipio di Roma, avente come meta la
Torre della Bufalotta
(anche se in realtà di torri, in zona, ce ne sono diverse).
All’ora di merenda di un caldo e assolato pomeriggio di aprile 2018 (interludio fra lunghi periodi piovosi, benvenuti come non mai dopo due anni di siccità), il compagno di merende Marco mi ghermisce dalla scrivania e mi trascina alla scoperta di questo luogo, che avevamo in canna da almeno due anni.
Parcheggiamo su via della Marcigliana e ci avviamo in direzione di un doppio filare di alberi, che sormontano il fosso che ci separa dalla torre, visibile in lontananza e apparentemente semplice da raggiungere.

Per raggiungere la torre della Bufalotta
dovremo scendere e risalire quel fosso.
Subito incocciamo in una consistente famiglia di cinghiali, che, lesta, fugge appena ci avvista.
Cominciamo a scendere sul fondo del fosso e ci accorgiamo con sgomento che si tratta di una vera forra, la cui base, complici le intense piogge di quest’inverno, è percorsa da un potente rivo d’acqua ed è ricoperta da rovi, che mettono a dura la nostra progressione.
Riusciamo ad ogni modo a farci strada fra la vegetazione, ci imbattiamo in una galleria di uso idraulico e in alcune grotte di probabile utilizzo come abitazioni o depositi, e riusciamo a risalire il versante opposto.
Superiamo l’ultima barriera di rovi e giungiamo sull’altopiano, dove la torre troneggia a circa cento metri da noi: uno scenografico spuntone rosso nel sole del tardo pomeriggio.

Ma l’escursione è lungi dall’essere conclusa.
Sappiamo, infatti, che una cascata è presente sotto la torre, a formare il classico ecosistema che, come ad esempio a Belmonte ha sostenuto la vita dei tanti insediamenti nati nel medioevo che tante volte abbiamo visto in questo blog, formati da incastellamento/forra/abitazioni ipogee/fiume/cascata, mulino,
E infatti ne sentiamo lo scrosciare.
Purtroppo la folta vegetazione ci impedisce di vederla e le alte e ripide pareti della della forra ci impediscono di avvicinarci.
La forra, continuazione di quella che abbiamo appena attraversato, e in questo punto si mostra infatti, con nostro sgomento, come la più maestosa da me vista (e ne ho viste tante) nei pressi di Roma.
Impossibilitati a discenderla, ne percorriamo il bordo superiore, lungo il versante orografico sinistro, verso la sorgente, per provare ad attraversarla dove questa è meno ostile.

Dopo alcune centinaia di metri le pareti si addolciscono e riusciamo a calarci.
Ma le difficoltà non sono finite. È infatti impossibile percorrerla sul fondo in direzione della cascata, sempre per via dell’acqua alta e dei rovi.
Risaliamo quindi la parete anche di questa seconda forra, giungiamo su un secondo altopiano, percorriamo il bordo della gola lungo il versante orografico destro e finalmente la cascata ci appare dall’alto, fra la vegetazione: bellissima!
Queste meraviglie sono oggi in terreno privato e da una parte va bene così, visto che viene più facilmente preservato questo magico sito.
Dall’altra, e qui so di essere ripetitivo, perché non creare, qui e altrove, un parco archeologico-naturalistico? O un parco “avventuroso”?
I resti dell’antica città latina di Crustumerium, poco distanti, darebbero un ulteriore tocco di fascino e di storia a questo luogo straordinario.
Questa perlustrazione, per il fatto che andavamo avanti, senza sapere cosa ci aspettasse, né quanto tempo ci sarebbe voluto, mi fa sempre venire in mente ciò che scrisse Giovanna, una persona alla quale tengo molto, in occasione di una sua escursione sul Monte Amiata:
“oggi, camminando, ho avuto paura e la tentazione di tornare indietro. Regnava un silenzio assoluto e quel tratto di bosco era particolarmente buio e in più non riconoscevo il sentiero.
Poi ho visto un capriolo che non si è lasciato fotografare è così sono andata avanti e a mano a mano che andavo avanti le tensioni si allontanavano e il bosco tornava a farsi amico.
Ho pensato alla corsa e alle Asana dello Yoga. Se superi quel momento di difficoltà è fatta. Poi non ti fermi più.

Ho pensato alle difficoltà della vita, agli abbandoni. A quante volte pensiamo di non farcela. E poi ce la facciamo. Quasi sempre, almeno.
Ho camminato due ore così senza incontrare nessuno. Il silenzio è stato interrotto ad un certo punto da un rumore di rami che cadevano da un albero e poi dal battere di un picchio che non appena mi fermavo per avvistarlo si faceva silenzioso.
E basta.
Avrei potuto continuare così ancora un po’ ma il tempo è tiranno e dovevo recuperare i miei in una piazzola di sosta.
Ce l’avevo fatta”