Se c’è un luogo vicino Roma non segreto, questo è la Macchia Grande di Manziana con la sua ancor più nota, poco distante, caldara.
Talmente nota che, ogni volta che sul nostro gruppo facebook appaiono foto di altre aree con fenomeni vulcanici simili, i commenti sono sempre “ ma questa è la Caldara di Manziana!”
Detto questo, ciò che mi colpisce della Macchia di Manziana è la sua “orizzontalità”.
Fateci caso: quanti sono i boschi pianeggianti di una certa grandezza che conoscete?
Pochi, immagino, visto che la copertura arborea in Italia, pur maggiore di un tempo, è relegata a colline e montagne (che comunque compongono la gran parte del territorio italiano) e non alle pianure, sfruttate dappertutto.
E spesso si tratta di boschi “orizzontali” rimasti intatti nei secoli solo perché sacri.
“E allora … che ci entriamo a fare nella macchia di Manziana?”
Tranqui.
Seguitemi!
Cominciamo dal parcheggio (per quanto consiglio di arrivarvi scendendo con la mountain bike dal treno alla stazione di Manziana).
Un parcheggio esteticamente perfetto, accanto all’antico edificio che ospita, oggi, l’università agraria e a una fontana altrettanto antica e aggraziata, dalla quale sgorga un’acqua leggermente frizzante, ideale per riempire le nostre borracce (per quanto l’ultima volta la fontana era disseccata – portare quindi le borracce piene e in caso svuotarle).
Intorno i declivi prativi contornati di mucche maremmane e, soprattutto, con accanto l’entrata di un sito singolare che abbiamo visitato nella prima edizione:
l’Ipogeo di Santa Pupa, forse un luogo di culto antichissimo.
Un tempo questa galleria traforava l’intera collina.
Oggi è ostruita dopo circa 70 metri.
Penetrandovi all’interno, la suggestione è massima e l’emozione raggiunge l’apice allorché si giunge sotto il lucernario (detto “Occhialone” dai locali), aperto nella roccia forse per illuminare dall’alto un altare o più prosaicamente per dare aria a quella che poteva essere una porcilaia (fermo restando che il sito è spettacolare).
Continuando oltre l’occhialone troviamo due singolari sequenze di cavità simmetriche ai lati, fin dove la galleria termina.
Fatto questo, iniziamo a camminare ed entriamo subito nella macchia.
Alla nostra sinistra, a circa cinquecento metri dall’Ipogeo di Santa Pupa, nel bosco, c’è un altro ipogeo più piccolo e simile a quello che abbiamo appena visto.
Siamo a soli trenta chilometri dal GRA, ma il mistero che aleggia in questi complessi sotterranei ci porta lontano nel tempo e nello spazio.
L’amica indigena Marinella Mariani (presidente dell’Associazione “Strada dei Sapori e della Cultura dell’Antica Via Clodia, che ha come scopo la valorizzazione di questo territorio sorprendente) ci porta lungo le strade bianche del bosco.
All’improvviso la strada bianca termina e continuiamo lungo un traccia di sentiero che scende sempre più ripidamente in una gola.
Ogni tanto emergono tratti lastricati.
Un tempo questa traccia sepolta nelle vegetazione doveva essere una strada importante.
Sul fondo della gola, infatti, a cavallo del fiume, troviamo le imponenti rovine della Mola di Manziana, che fanno un tutt’uno con il selvaggio ambiente circostante e che ci raccontano di un passato glorioso, di cui i resti del lastricato sono un tassello.

presso la Mola di Manziana
E non è finita. Sulla strada del ritorno deviamo per l’imponente ponte romano, detto, come spesso accade, Ponte del Diavolo.
Nel Medioevo ritenevano impossibile che fossero stati essere umani a costruire ponti di simile complessità, non avendo contezza delle capacità tecniche e progettuali dei Romani.
Era più plausibile fosse stato il diavolo, per ghermire la prima anima che vi fosse passata.
E di Ponti del Diavolo è piena l’Italia.