
Come per il post dello scorso 28 febbraio su Castel Porciano e il Fiume di Smeraldo torniamo in quello che insieme al corso del Crèmera è il mio luogo del cuore.
Ovvero gli altopiani fra Nepi, Civita Castellana, Calcata e Mazzano Romano, ovvero il territorio dei Falisci di cui ho parlato tante volte, che compongono un territorio straordinario fra le tante zone straordinarie nei pressi di Roma.
Questa volta lo dico: questa non è un’escursione come altre descritte nel blog. Questa è un’esplorazione grandiosa, che include la visita a una cascata stupefacente, lungo vie cave altrettanto stupefacenti e avente come meta un sistema di grotte antichissime, totalmente sconosciute e immerse in un ambiente selvaggio.

Ebbene. Cominciamo!
Scesi da Nepi nella valle del Fosso Castello, subito dopo il ponte che attraversa il fiume si lasciano a destra i cavoni di Nepi, l’affascinante sequenza di Vie Cave falische che da Nepi porta sull’altopiano, e si segue un sentiero segnato tracciato lungo il fiume che conduce alla cascata del Picchio, dopo essere transitati per un ruspante ponte tibetano.
Si tratta di un ponte agevole per il quale ci vuole un minimo di prudenza. Appena si comincia a sentire lo scroscio dell’acqua, il passo istintivamente accelera,
ed ecco improvvisa la visione della cascata del Picchio (che poi sono due).
Come grandiosità non ha probabilmente eguali nel territorio che si stende fra Cerveteri (con le sue celebri imponenti cinque cascate disseminate in direzione di Castel Giuliano. E un giorno – diamine! – scoprirò la sesta cascata, di cui si mormora l’esistenza, ma nessuno sa con certezza dove sia) e l’Appennino con le sue tante cascate.
A questo punto si può proseguire verso Castel S.Elia e completare così una splendida traversata, soprattutto se si sarà lasciata un’auto in paese, onde evitare i tre chilometri a piedi su strada asfaltata per tornare a Nepi.

In tal caso bisogna armarsi di pazienza, perché dopo la cascata il sentiero si infratta, e a un certo punto si deve intuire la ripida e sdrucciolevole salita al paese.
Giunti a Castel S.Elia al termine della traversata, non devo certo descrivervi ciò che troverete alla fine del paese, ovvero il trittico composto dallo scenografico ponte a schiena sul fondo della forra, dalla chiesa romanica di S.Elia su un piccolo pianoro a mezza costa, e dal santuario rupestre di S.Maria ad Rupes. Un complesso stupefacente per il contesto architettonico, storico e paesaggistico.
Un complesso che va ad aggiungersi all’impressionante numero di luoghi più o meno segreti, tutti incantevoli, sparsi nel raggio di non più di duemila metri. Li riassumo a partire da Nepi, dove troviamo le già nominate Vie Cave falische (I Cavoni), la cascata dei Cavaterra, la rocca dei Borgia e l’acquedotto; poi allontanandoci di poco c’è il trittico di Castel S.Elia; poi ancora i Castelli d’Ischia e di Porciano, di cui abbiamo già parlato. La perla è infine il fiume di smeraldo presso Castel Porciano.


Il tutto a comporre un territorio con una commistione fra storia e natura con pochi uguali in Italia.
Ma siccome il nome di questo blog è “i luoghi segreti a due passi Sa Roma” non ci accontentiamo di visitare una cascata bellissima ma ormai conosciuta, e in più con un sentiero segnato che ci arriva. Ci tocca quindi andare a cercare un luogo segreto, che risponda ai sei ormai noti requisiti.
Così, dopo la seduta di contemplazione alla Cascata del Picchio, riprendiamo il sentiero per tornare a Nepi e saliamo sull’altopiano della Massa lungo i Cavoni, che avevamo lasciato sulla nostra destra all’inizio del nostro itinerario.
Se, dopo essere usciti dagli stupefacenti Cavoni ed essere saliti sull’altopiano della Massa andassimo verso est, possibilmente al tramonto e in una giornata di sole, dopo alcuni chilometri di strade bianche ci affacceremmo sopra un acrocoro triangolare, al cui vertice avremmo la mirabile visione del Castello d’Ischia, arrossato dal sole e a picco sulle gole circostanti. In una location molto “Signore degli Anelli”.

Invece per questa volta ci dirigiamo a sud, e camminiamo finché non individuiamo l’unico punto in cui l’altopiano scende con moderata e regolare pendenza verso il fondo del fiume, anziché interrompersi bruscamente, e vertiginosamente, a picco sulla forra.
A questo punto dobbiamo trovare una falesia alta una decina di metri, e lunga un centinaio (sono riuscito a individuarla solo al mio terzo sopralluogo, grazie agli amici Orazio e Marco).
Percorriamo interamente la sua base, saltando sui massi erratici, entrando nei pertugi fra i massi stessi e attraversando macchie di rovi, in un ambiente apparentemente primigenio (in realtà è un rimboschimento spontaneo). Possiamo così osservare una serie di grotte scavate nella parete della falesia. La più grande di queste, con l’ingresso celato dai rovi, è la Grotta dell’Arnaro.
Questa grotta è composta da diversi ambienti (probabilmente su due piani. Ma non ci siamo arrischiati a utilizzare la scala precaria ivi presente da chissà quanto tempo, per verificare l’esistenza di un ulteriore piano), e con incisioni certamente antichissime sulle pareti.
Essa riserva, a chi riesce a trovarla, la consueta suggestione che si avverte quando si giunge in un luogo così sconosciuto, solitario ed enigmatico.
