
Siamo stati molte volte a cercare luoghi segreti all’interno del comune di Roma. Si. Avete capito bene: li abbiamo cercati proprio all’interno del perimetro del comune di Roma, ovvero della città più popolosa d’Italia.
E ne abbiamo trovati ben nove: i bagni della Regina, le cave di Salone, il lago di Vallerano, la valle Bruciata, la valle dell’Arrone, il lago di Lunghezza, le gallerie di Pietra Pertusa, le cave del Fosso del Drago e le cave di Grotta Oscura.
Un inciso: ho sempre affermato che la mia zona del cuore è quella che dalle propaggini della città si incunea fra la Flaminia e la Cassia, e che comprende il Parco di Veio e la riserva del Treja.
Ma ce n’è un’altra che mi affascina: ovvero il secondo cuneo di territorio delimitato a nord dall’autostrada Roma – L’Aquila e a sud dalla via Prenestina, e che dalle propaggini a est di Roma arriva a Tivoli e Palestrina. Ed è in questo territorio cercheremo il decimo luogo segreto “dentro” Roma.

Usciamo dalla città percorrendo la via Polense e attraversando un paesaggio via via più bucolico. Superiamo le deviazioni verso Palestrina e verso Poli
e proseguiamo dritti in direzione di San Vittorino.
Sotto passiamo un arco di roccia, una sorta di Stargate che ci riporta indietro nel tempo. Infatti arriviamo al borgo fortificato di S. Vittorino, che sembra essere fuori del tempo (e con la strada asfaltata che termina subito dopo).
La capitale sembra lontanissima, e invece siamo ancora, ripeto, nel comune di Roma.
Da S. Vittorino giungiamo sul fondo del fosso detto di Ponte Terra:
una gola profonda e verdissima, solcata da un ruscello e con alte felci e alberi ricoperti di muschio: un ambiente molto fantasy.
Ma, oltre a trovarci in un luogo di grande bellezza, siamo anche davanti a una delle meraviglie ingegneristiche dei romani: un traforo scavato per incanalarvi l’acqua del fosso, così da permettere la costruzione del ponte di terra che ci sovrasta e dal quale ne siamo scesi senza accorgercene: solo dal basso riusciamo infatti a inquadrarlo nella sua grandiosità.

A proposito: dove va a finire il ruscello? Caspita! Ma entra nella galleria! E il tutto va a comporre una stupenda scenografia disegnata dall’uomo e dalla natura.
Ma questa è solo una delle meraviglie di S. Vittorino.
Dal paese parte una strada bianca, che dopo alcuni chilometri porta a Gericomio, un borgo agricolo semi abbandonato e di grande suggestione.
Poco prima di Gericomio un’altra strada bianca ci porta a Ponte S. Antonio, arcata di acquedotto romano innalzata ad un’altezza vertiginosa dal fondo del gola.
Non mi stanco di ripeterlo: gli acquedotti romani sono comunemente ritenuti la più grandiosa opera di ingegneria civile al mondo fino al 1800. E questa arcata ne è la prova. Come lo è il Ponte Lupo, la più massiccia arcata di acquedotto romano al mondo, diciotto metri di spessore, poco distante da qui e di cui abbiamo diffusamente parlato. (Andatevi a vedere i relativi post!).

Ora torniamo a S. Vittorino.
Questo borgo è stato edificato a picco su una forra parallela a quella di Ponte Terra.
Come la gola del Ponte Terra e come tutte le gole di questo territorio, anche in questa ci sono anse sinuose, vegetazione rigogliosa, rapide.
Percorrendola verso monte, con i piedi in acqua, in un continuo passare dall’oscurità alla luce e in un crescendo di emozioni e di vibrazioni arriviamo al decimo luogo segreto del comune di Roma: una cascata stupenda.
Di certo la più bella cascata “romana”.
Come per altre cascate che abbiamo visto negli scorsi post (quelle del fosso di S. Antonino, quella della mola di Magliano ecc.), anche questa è immersa in una grandiosa commistione di natura e di opera dell’uomo, con il sottostante specchio d’acqua balneabile, l’isolotto e i romantici ruderi del mulino.

Troverete info dettagliate sul Ponte Lupo (e su altre decine di posti splendidi e sconosciuti vicino alla metropoli) nelle due guide “Luoghi segreti a due passi da Roma”.
Nel terzo volume che sto preparando, poi, troverete e informazioni dettagliate anche per giungere nei luoghi descritti in questo post.
La foto di copertina è di Stefano De Francesco.
